Introduzione
La 15° missione al Lacor Hospital si è svolta a 3 anni dalla precedente nel 2019. Lo stop è stato causato dalla pandemia da Covid prima, con il blocco delle frontiere internazionali, e dall’epidemia di Ebola in Uganda poi, nell’11/2022, che aveva causato una sessantina di morti nel sud del paese.
Il rischio di diffusione dei contagi aveva imposto prudenza ai sanitari, tutti volontari in ferie, e la missione è stata programmata una volta rientrato l’allarme, nel febbraio 2023.
Come sempre insieme a Surgery for Children c’è stata la Fondazione Corti, per portare avanti il progetto iniziato nel 2006, di offrire cure chirurgiche gratuite a bambini con malformazioni congenite, e contemporaneamente supportare lo sviluppo della chirurgia pediatrica in Uganda attraverso la formazione di giovani chirurghi. Ad Aprile 2023 in Uganda risultano esserci 9 chirurghi pediatri (di cui 6 in attività concentrati nel Sud del paese) per una popolazione pediatrica di oltre 20 milioni; 3 sono stati formati da SFC, di cui 2 provenienti da ospedali diversi, hanno effettuato durante il periodo del Covid tre “surgical camps” presso il LH, per operare bambini in lista di attesa che, a causa dell’interruzione forzata delle attività, non potevano essere operati.
Team
Alla missione 2023 hanno partecipato 20 sanitari italiani: 4 chirurghi pediatri: S.d’Agostino (Vicenza), B.Cigliano e A.Savanelli (Napoli), E.Bindi (Ancona), 3 anestesisti: G.D’Amico (Frosinone) I.Brandolini, Università Tor Vergata e C.Gelormini, Osp. Gemelli (Roma), e 13 Infermieri: A. Scuccato, C. Sellaro, M.Bernadele e P.Sausa (Vicenza), C.De Cao, E. Bertozzo e M Coffele (Arzignano-Vicenza), L.Barro (Treviso), AM. D’Oro (Napoli), Y. Khayamian e M. De Chiara (Osp. Santobono, Napoli), E.De Pascali (Trento), M. Fusco (Frosinone), e 2 medici ugandesi: Peter Kaiyma, chirurgo generale che aveva lavorato al LH per 5aa e che si era spostato a Kampala per specializzarsi in chirurgia pediatrica, ed Isaac Okello, medico tirocinante in ospedale.
Lo svolgimento della missione
Il ritorno di SFC è stato accolto da un incredibile clima di festa, con applausi e canti di benvenuto da parte sia dei pazienti che del personale. Manifestazioni di affetto ed apprezzamento non erano mancate in passato, ma mai c’era stata una simile accoglienza. L’atmosfera era di grande impatto emotivo tanto per i volontari “esperti” quanto per chi arrivava lì per la prima volta, ed era impossibile non sentir la responsabilità per le aspettative dei locali.
Nelle valigie dei volontari c’erà tutto il materiale sanitario indispensabile, ma introvabile sul posto: sacche per nutrizione parenterale, presidi anestesiologici e strumenti chirurgici per la chirurgia neonatale, cistoscopio e laparoscopio pediatrico, stimolatore muscolare, ed anche due cistoscopi per adulti, con relativi resettoscopi da donare all’ospedale. Farmaci, antibiotici, antidolorifici ed anestetici, non introducibili nel paese secondo la legislazione Ugandese, sono stati invece acquistati nella farmacia dell’ospedale.
Tre valigie sono rimaste purtroppo bloccate in aeroporto ad Entebbe e sono arrivate al LH con qualche giorno di ritardo. Il contrattempo ha in qualche modo condizionato le attività.
Complessivamente sono stati visitati 120 bambini di cui: 11 malformazioni anorettali, 2 atresie intestinali, 8 megacolon, 48 ipospadie,10 DSD (genitali ambigui), 6 estrofie/epispadie, 3 VUP,
4 masse (cervicali/addominali), 4 anomalie urologiche, 6 neonati con patologie chirurgiche (2 VUP,
2 atresie esofagee, 1 atresia ileale, 1 idro-metrocolpo). I pazienti provenivano in gran parte dalle regioni Acholi, ma anche da aree più distanti nel sud del paese; molte non parlavano nè l’inglese nè l’Acholi ed ogni volta per ottenere informazioni era necessario cercare traduttori (di solito infermiere o altri ricoverati). Rispetto ad altri anni c’è stata una maggior prevalenza di Ipospadie e di DSD. In effetti gli annunci per la popolazione prima dell’arrivo del team, erano stati concentrati su queste due patologie dal momento che nei “surgical camps” tenuti dagli ugandesi durante la pandemia erano già stato operati bambini con malformazioni anorettali e megacolon.
Tra i pazienti in attesa c’era Affo, bambino di 7 anni proveniente dal Togo. Era nato con una estrofia vescicale, ma in Togo mancavano medici esperti. Così nel primo mese di vita era stato operato senza successo da un chirurgo appositamente arrivato dal Benin. Avrebbe dovuto essere rioperato ma i genitori non avevano più fiducia nel chirurgo. In base alle loro conoscenze in Africa non c’era possibilità di effettuare un simile intervento ed avevano iniziato a cercare soluzioni in Europa. Dopo vari tentativi falliti, un amico emigrato in Italia ha contattato SFC che ha offerto alla famiglia l’opportunità di effettuare l’intervento in Uganda al LH, ospedale dove in passato erano già stati accolti pazienti con malformazioni complesse, provenienti da altri paesi africani.
La famiglia pur con qualche iniziale perplessità, aveva colto l’occasione al volo e si era organizzata per affrontare il suo personale viaggio “della speranza” all’interno del continente africano.
Le operazioni
Durante la missione sono stati operati 77 pazienti: 4 malformazioni ano-rettali, 2 laparotomie,
2 pull-trough addominali, 4 laparoscopie (1 operativa), 7 derivazioni/ricanalizzazioni intestinali,
1 atresia esofagea, 4 masse neoplastiche, 1 uretero-sigmoido-stomia, 2 rimozioni di calcoli vescicali, 33 uretroplastiche, 1 genitoplastica, 4 orchidopessi, 12 cistoscopie (3 operative e 9 diagnostiche). C’è stato un decesso (atresia esofagea), ed i reinterventi per complicazioni sono stati 6. Complessivamente le procedure anestesiologiche sono state 90.
La maggior parte dell’attività chirurgica è stata concentrata nelle prime 2 settimane, poi 14 dei 20 volontari sono rientrati in Italia e gli altri sono rimasti 1 settimana in più per il follow-up.
Si è operato ininterrottamente per 6 giorni a settimana con ritmi incalzanti dalla mattina alla sera, su 2 ed anche 3 sale operatorie, con il supporto di 9 infermieri italiani ben integrati con quelli locali. I chirurghi hanno sempre lavorato in stretta collaborazione con il dr. Kaiyma che conosceva bene il contesto avendo lavorato lì per 5 anni ed era arrivato accompagnato da 3 specializzandi di chirurgia generale del Mulago Hospital. Anche i 3 anestesisti hanno collaborato in maniera soddisfacente con gli omologhi ugandesi. Questi ultimi però, 2 per tutto l’ospedale, non erano sempre disponibili; è stato più facile coinvolgere nelle attività i tecnici di anestesia che hanno mostrato maggior interesse a sperimentare metodologie e procedure anestesiologiche diverse.
A SFC erano riservati una quarantina di letti tra Terapia Intensiva e reparto. Ogni giorno 4 infermiere, esperte e capaci di coinvolgere il personale locale, accoglievano 5/6 nuovi pazienti, da studiare, preparare per gli interventi e da assistere nel post-operatorio. Erano coadiuvate dal dr Isaak con la supevisione di un chirurgho italiano.
Le attività sono state impegnative e frenetiche, ed i momenti di difficoltà sono stati superati grazie alla collaudata integrazione con i locali.
La maggior parte delle complicazionie si sono verificate nelle uretroplastiche con una % di infezione chirurgiche insolitamente alta. Era già successo in un’atra missione svolta come l’attuale nella stagione delle piogge, e da allora si era deciso di lavorare preferibilmente nella stagione secca, tra ottobre e dicembre. L’epidemia di Ebola però ha portato a modificare i programmi, e le infezioni potrebbero essere collegate alla maggiore umidità ed alla più alta incidenza di malaria (che crea immunodepressione transitoria), tipica della stagione delle piogge.
L’intervento più impegnativo, non tanto dal punto di vista tecnico quanto per le aspettative legate al suo lungo e complesso percorso, è stato quello di Affo. Durato 11 ore con più step chirurgici, è stato portato a termine senza complicazioni, ma nel post-operatorio un’infezione superficiale della ferita, gestita in maniera conservativa, ha prolungato la degenza di qualche settimana.
Alla partenza del team il piccolo è stato affidato a Mr Martin, il chirurgo direttore dell’Ospedale ed alla madre è stata consegnata la relazione del ricovero con l’intervento eseguito e le indicazioni per il follow-up a lungo termine per i colleghi del Togo che prenderanno in cura il bambino.
Considerazioni finali
Particolarità delle 15° missione indicative dell’evoluzione delle attività del LH e della disponibilità ad intercettate i bisogni dei pazienti più bisognosi e ad aprirsi a percorsi terapeutici migliorativi.
1. sale operatorie attrezzate anche per la laparoscopia.
Le 6 sale operatorie sono state riorganizzate con nuovi apparecchi anestesiologici adatti anche ai bambini, nuove scialitiche e bombole di CO2 fornite in previsione di interventi ginecologici in laparoscopia. Il team di SFC però, che in precedenti missioni aveva già effettuato una decina di laparoscopie diagnostiche “gasless” in pazienti con DSD, aveva portato con sè dall’Italia la strumentazione pediatrica necessaria per tali interventi. Così è stato possibile questa volta, effettuare anche la 1° laparoscopia pediatrica operativa (orchidopessia), oltre a 3 laparoscopie diagnostiche sempre nel sospetto di DSD.
2. intervento di Atresia Esofagea.
Da 20 giorni erano ricoverati in attesa di intervento in T.I., due neonati con AE.
A Kampala, nell’ospedale pediatrico di riferimento nazionale, il Mulago, i primi neonati con AE erano stati operati soltanto a maggio 2022, ed il dr. Kaiyma ne aveva operati alcuni con buoni risultati. L’assenza del respiratore neonatale nel post-operatorio era stata risolta con soluzioni non convenzionali ed i neonati venivano estubati dopo qualche ora dalla fine dell’intervento.
Forte dell’esperienza nella capitale, il LH contava sulla collaborazione con SFC per operare i due neonati con AE.
In realtà però, durante le precedenti missioni, in tanti anni, non erano mai stati ricoverati in TI neonati con AE, e vederne due ancora vivi dopo 20 giorni, senza un’assistenza qualificata a loro dedicata, era da non credere. Al LH come in tutti gli ospedali ugandesi, le madri vengono dimesse poche ore dopo il parto, e la diagnosi di malformazioni non immediatamente visibili perchè interne come l’AE, sono sempre sfuggite.
I neonati morivano poi a casa per soffocamento dopo i tentativi falliti di alimentazione al seno, senza una diagnosi precisa. SFC, attenta a queste problematiche, da qualche anno aveva proposto all’ospedale un progetto di sorveglianza delle malformazioni congenite che puntava a migliorare la capacità delle ostetriche nella valutazione dei neonati in sala parto.
Il progetto era stato avviato proprio durante il Covid ed ora l’aver trovato neonati con AE era una conferma dell’aumentatala sensibilità delle ostetriche.
I due neonati ricoverati in Terapia Intensiva, prematuri e denutriti, entrambi in una unica incubatrice aperta, venivano idratati in vena periferica ed avevano cannule nasali per l’ossigeno.
Ii valori di O2 rilevati con l’ossimetro venivano diligentemente riportati nelle cartelle clinche dalle allieve infermiere, ma in pratica i neonati erano affidati esclusivamente alle due madri, del tutto ignare delle complesse problematiche della malattia. Il loro aspetto era di grande povertà, non parlavano in inglese ed erano lì tutto il giorno attente ad aspirare il retrofaringe durante i rigurgiti e le crisi di cianosi e ad infilare il capezzolo rinsecchito, enorme, nella bocca piccola ed affamata, con la speranza di veder finalmente succhiare il figlio senza interruzioni.
In questo scenario statico e passivo, condizionato dalla mancanza di personale esperto e di presidi medici adeguati, i due bambini continuavano a lottare per la vita mentre le madri aspettavano solo che il proprio figlio si attaccasse al seno in maniera soddisfacente. Avevano saputo che con l’arrivo di SFC, i due bambini sarebbero stati portati in sala operatoria per un intervento e chiedevano con gli occhi che questo avvenisse al più presto.
Le condizioni di uno dei due neonati erano decisamente critiche mentre l’altro stava un pò meglio.
I rischi per un eventuale intervento però, sarebbero stati comunque alti a causa della compromissione polmonare conseguenza delle ripetute e prolungate inalazioni di latte nei polmoni. Senza intervento però egli non avrebbe avuto comunque alcuna chance di sopravvivenza.
Alla fine, le richieste del Direttore dell’ospedale e del dott. Kaima accompagnato da un anestesista ugandese con il quale egli aveva maturato esperienza al Mulago, hanno avuto la meglio sui timori e sulle preoccupazioni dei chirurghi e degli anestesisti del team di SFC, ed il neonato è stato operato. Purtroppo però, non ha superato l’intervento a causa di complicazioni intraoperatorie: gli è stata riscontrata destroposizione dell’arco aortico, probabilmente associata ad altre cardiopatie non evidenziate ad un ecocardiogramma effettuato nel preoperatorio.
Il secondo neonato invece ha vissuto in T.I. altri 10 giorni. La madre, pur conoscendo l’esito dell’intervento dell’altro neonato, ha continuato a sperare per tutto il periodo che anche a suo figlio fosse offerta la stessa opportunità…
Una mattina poi l’incubatrice era vuota. La madre aveva portato a casa la salma del figlio….
3. “surgical camps” ugandesi.
Con l’interruzione delle missioni di SFC a causa del Covid, i bambini con malformazioni in attesa di intervento, non avevano più possibilità di essere curati, e l’ospedale ha aperto le porte ai chirurghi ugandesi, tra cui il dr Kaima, che per tre volte hanno replicato in autonomia i “surgical camps” sul modello di SFC.
Esempio confortante di “sostenibilità” a seguito del trasferimento di competenze sul campo
4. accoglienza di un piccolo paziente per un “Viaggio della Speranza” dall’Africa all’Africa.
E’ stato esaltante riuscire a vedere i sorrisi sul volto di Affu e di sua mamma alla fine del loro articolato “viaggio” dal Togo all’Uganda, iniziato con mille incognite e nessuna certezza di guarigione. 5.860 km, solo qualche ora di aereo ma un’odissea se si considerano le illusioni, le delusioni e la fede incrollabile della famiglia nel non perdere la speranza per 8 lunghissimi anni.
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la straordinaria sinergia tra un ospedale capace da sempre di accogliere e curare nel miglior modo possibile pazienti vulnerabili senza discriminazioni, ed un gruppo di medici ed infermieri abituato ad accettare le sfide a migliaia di Km dal proprio rassicurante contesto lavorativo, con l’obiettivo di portare umanità e professionalità al servizio di malati senza nè colpe nè opportunità di cure.
Il viaggio di Affo probabilmente non finirà con il suo rientro a casa, ma la sua vita potrà certamente essere affrontata con minori disagi ed una migliore qualità di vita. In ogni caso la sua esperienza sta a testimoniare che anche in Africa possono essere realizzate le condizioni per risolvere malattie complessi, e che i “viaggi della speranza” in Occidente potrebbero non essere necessari se si lavora per creare competenze in loco.
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