Periodo
Dal 2014
Luogo
Striscia di Gaza, Palestina
Collaborazioni
PCRF, Stati Uniti
Panoramica del paese
La Striscia di Gaza è un’area di 360 km² con quasi 2.000.000 di abitanti (50% < 15 anni); 2/3 sono profughi dai territori palestinesi occupati da Israele. La densità di 4.500 abitanti/km² è tra le più alte del mondo; il tasso di povertà è del 42% e ben l’80% della popolazione dipende dagli aiuti internazionali.
Economia, organizzazione sociale e vita quotidiana sono condizionati dalla prolungata e sanguinosa conflittualità israelo-palestinese, e dalle insanabili tensioni tra le fazioni di Fatah e Hamas.
– Fatah è il movimento politico fondato da Arafat, interlocutore di Israele che mira a risolvere la
conflittualità con la realizzazione di due stati; si identifica con l’Autorità Nazionale Palestinese
(ANP), e controlla la Cisgiordania, territorio che comprende anche Gerusalemme est.
– Hamas è un movimento politico islamico militante che non riconosce Israele; si considera il “vero difensore” dei diritti dei palestinesi ed è popolare a Gaza dove si raccolgono quelli più integralisti. È classificata come organizzazione terroristica da alcuni paesi (Stati Uniti, Giappone, Canada, Israele), e da quando nel giugno 2007, Hamas è salito al governo, Gaza è sottoposta ad un embargo terrestre, aereo e marittimo da parte di Israele ed Egitto, considerato “l’assedio più lungo della storia contemporanea”.
Le esportazioni di tutto ciò che viene prodotto nella Striscia sono bloccate, e le importazioni di acqua, medicine, carburante, elettricità ed altri beni essenziali contingentate. I rifornimenti pertanto dipendono esclusivamente da Israele, ed è ridotta la libertà di movimento dei cittadini. I palestinesi non possono uscire al di fuori della Striscia neppure per motivi di salute ed i permessi di uscita devono essere approvati da Israele.
Gaza in pratica è una vera e propria “prigione a cielo aperto” dove gli abitanti subiscono una lenta catastrofe, umanitaria ed ambientale.
L’accesso all’acqua corrente e ai servizi igienici è ridotto; si vive con poche ore giornaliere di elettricità, i tassi di abbandono scolastico e di disoccupazione sono altissimi (47% ma tra i giovani anche 60%) e senza lavoro è impossibile sviluppare competenze professionali.
Sono sensibilmente elevati i tassi di inquinamento per la dispersione di metalli sul terreno (smog e residui delle armi durante le guerre) e di fertilizzanti in mare e nelle falde acquifere. Le malattie sono frequenti: cardiache, psichiatriche (da stress per le guerre), tumori, traumi e malformazioni congenite, con queste ultime favorite non solo dall’alto tasso di inquinamento, ma anche da fattori sociali (25% dei matrimoni sono tra consanguinei), da malnutrizione materna in gravidanza e dall’elevato tasso di natalità (3% con una media di 5 figli/donna).
La quotidianità delle famiglie pertanto è costantemente sospesa tra la paura, l’insicurezza e l’incertezza per il futuro, le morti e le invalidità croniche tra i congiunti, i disturbi psicologico-comportamentali, in aumento soprattutto nei minori e negli adolescenti tra i quali si è diffuso il consumo di droghe (si utilizzano farmaci di bassa qualità acquistati al mercato nero).
In ospedale non mancano medici ed infermieri ma è deficitario il loro aggiornamento, le strumentazioni sono datate e non sempre funzionanti per la mancanza di revisione e di pezzi di ricambio, i medicinali scarseggiano e la qualità dell’assistenza è scadente.
Si avverte il peso del prolungato isolamento internazionale a causa dell’embargo, ed il destino di chi soffre di malattie gravi non curabili in loco, è legato o al trasferimento in Israele o Giordania (ma la corruzione influisce sui permessi), o all’arrivo di professionisti internazionali.
Scenario della missione
Le Missioni sono iniziate nel 2014 su invito del Ministero della Salute Palestinese, Dipartimento di Cooperazione Internazionale, dopo che Paola Manduca una genetista dell’Università di Genova impegnata in studi sulla salute dei neonati e delle donne in gravidanza a Gaza, aveva suggerito l’utilità di una collaborazione tra i medici locali e Surgery for Children (SFC).
La dott.ssa Manduca aveva evidenziato tra il 2006 ed il 2010 nella Striscia di Gaza, un significativo aumento di neonati con “difetti alla nascita” correggibili chirurgicamente, ma la cui soluzione era per lo meno “problematica” in un contesto ad alto rischio ambientale, penalizzato dalla precarietà delle infrastrutture e dalla scarsità delle risorse.
La disponibilità di SFC ad accettare l’invito si è basata esclusivamente su motivazioni umanitarie, considerato l’alto numero di bambini con malformazioni congenite e le poche opportunità di cure.
È in quest’ambito sanitario che si inseriscono le attività del P.C.R.F. (Palestinian Children’s Relief Fund), associazione umanitaria apolitica e senza scopo di lucro riconosciuta da Israele (con sede negli USA ed una regionale in Italia a Livorno), che organizza “soccorso medico internazionale da parte di equipe specialistiche”, per i palestinesi della Cisgiordania, di Gaza e dei campi profughi in Libano e Giordania.
Ogni anno il PCRF porta a termine circa ottanta missioni (una cinquantina a Gaza), molte delle quali di sub-specialità pediatriche: cardiochirurgia, ortopedia, chirurgia plastica, oncologia, pneumologia e rianimazione; più rare invece quelle per la chirurgia ricostruttiva delle malformazioni urogenitali e gastro-intestinali.
Con la sua ben rodata esperienza, il PCRF è stato fondamentale per l’avvio delle attività di SFC, offrendo:
– assistenza per i visti di ingresso ai volontari da parte di Israele,
– garanzie per la sicurezza,
– collaborazione nelle attività sanitarie.
Il PCRF inoltre, si occupa:
– dell’accoglienza a Tel Aviv,
– del pernottamento a Gerusalemme Est e del trasferimento al Valico di Erez, (unica via di accesso a Gaza oltre al valico di Rafha controllato dagli Egiziani), e
– dell’ospitalità presso il Marna Hotel a Gaza City, a pochi passi dallo “Shifa Hospital”, sede delle attività.
Lo Shifa è il più grande ed attrezzato ospedale di Gaza; vi nascono 25.000 bambini all’anno e durante i conflitti ospita centinaia di feriti, soprattutto civili, ammassati perfino nei cortili.
Erez è una fortezza imponente in un’area semi-desertica, con alti muri grigi presidiati da numerosi militari israeliani d’ambo i sessi; atletici, dai volti inespressivi e con le mani sempre pronte sui mitra a tracolla.
L’atmosfera incute un istintivo disagio; i controlli sono minuziosi ed efficienti e superare la dogana può richiedere anche 2 ore; uscirne di più.
Ci vuole pazienza; i bagagli sono perquisiti meticolosamente, ed a volte bisogna spogliarsi ed attendere senza indumenti, sotto lo sguardo dei soldati chiusi nei loro gabbiotti in alto.
Dopo l’ultimo tornello, si entra in un lunghissimo corridoio delimitato da inferriate e controllato da telecamere.
La “gabbia” prosegue per 2 km fino al polveroso e disordinato agglomerato di containers che costituisce la frontiera di Gaza. Fuori “la zona cuscinetto”, terra di nessuno: né alberi, né case, qualche rado arbusto cresciuto a stento nella sabbia e tanti detriti abbandonati di cemento e ferro arrugginito. In attesa alla frontiera il referente locale del PCRF, Suhail Flaifl, sempre paziente ed efficiente.
Gaza City è un popoloso agglomerato di edifici poco curati, circondati da una selva di fili elettrici sospesi pericolosamente a pali dall’equilibrio precario; le pareti scalcinate sono “rallegrate” da murales scoloriti, molti dei quali sono centrati sull’esodo forzato dei palestinesi dalle loro terre e sulla guerra impari con Israele, raffigurata da piccoli razzi contro i soldati da un lato, e grandi bombe contro i civili dall’altro.
Nelle strade sconnesse e polverose i rifiuti sono abbandonati ovunque, ed i tipici carri trainati dagli asini (unico mezzo di trasporto disponibile sempre, anche quando non c’è combustibile), si muovono tra auto vecchie traballanti ed improponibili. Un gran caos, ovunque bambini dagli sguardi vivi ed intensi e lo scenario è di povertà e sofferenza, in un’atmosfera caotica, chiassosa, disordinata ma piena di vita.
La prima missione: il contatto con la realtà di Gaza
La 1° missione si è svolta nel maggio 2014. Il mese precedente, Fatah e Hamas, avevano siglato un accordo di riconciliazione per eleggere un governo di unità nazionale; l’accordo aveva avuto il beneplacito di buona parte della comunità internazionale ma non di Israele che non intendeva portare avanti negoziati con le due fazioni unite. I volontari in partenza però, ingenuamente, consideravano l’accordo di buon auspicio per il futuro della Palestina e non vedevano motivi di preoccupazione nell’atteggiamento di Israele.
Nei giorni precedenti la partenza scoprimmo con sorpresa che l’arrivo in Terra Santa sarebbe avvenuto in coincidenza con la storica visita di Papa Francesco. Giungere a Gerusalemme contemporaneamente al Papa e “scoprire” la Via Crucis insieme alle innumerevoli personalità civili e religiose giunte da ogni parte del mondo, fu un’emozione indimenticabile.
Le stradine della città vecchia intrise di storia, erano sbarrate solo in prossimità del Santo Sepolcro dove di lì a poco, nella sala del Cenacolo, il Papa avrebbe incontrato il Patriarca di Gerusalemme!
La mattina successiva eravamo a Gaza accolti con grande cordialità insieme a Suhail ed al suo staff, dal Direttore dello “Shifa Hospital”, Sobhi Skeik e dal Primario Chirurgo Pediatra Ismail Nassar che avevano già ricevuto i nostri curricula ed erano ansiosi di collaborare.
Il piccolo reparto di chirurgia pediatrica, dignitoso, era stracolmo di pazienti: esiti di traumi, ferite di guerra, neoplasie, malformazione congenite le principali patologie… In ambulatorio c’erano i pazienti in attesa del nostro arrivo, tutti con quadri clinici complessi di malformazioni gastro-intestinali, uro-genitali e polmonari); in parte provenivano dall’ospedale ed in parte erano inseriti nelle liste dal PCRF. Le indicazioni chirurgiche furono condivise con il dr. Nassar con il quale da subito si era creato un buon feeling e la precedenza fu data ai casi urgenti e più complessi.
L’ospedale era discretamente organizzato ed attrezzato, ma la strumentazione non era sempre appropriata per risolvere i quadri clinici “estremi” dei pazienti; inoltre erano evidenti i limiti nell’aggiornamento del personale. Per loro, costretti da anni all’isolamento, la presenza di colleghi stranieri era una stimolante occasione di confronto professionale.
Per i volontari di SFC invece, questo era il primo incontro con una realtà complessa e pressoché sconosciuta, e la missione fu affrontata con la “curiosità di capire”, senza pregiudizi. Dai contatti con il personale dell’ospedale e le famiglie dei pazienti, i gazawi apparivano socievoli e dignitosi, purtroppo rassegnati di fronte a malattie considerate “incurabili”… ma fieri e combattivi nei confronti delle presunte ”prepotenze” e “violenze” israeliane. Mostravano comunque tanta gratitudine verso chi portava solidarietà alle loro sofferenze.
L’impressione era che la loro vita scorresse monotona nell’incertezza, sospesa tra l’inedia di padri senza impiego e le preghiere scandite dai muezzin. Il futuro era affidato ai figli “sfornati” in buon numero e con continuità.
Il clima ed i risultati della missione furono soddisfacenti e sia la dirigenza dell’ospedale che Ministero della Salute Palestinese e PCRF chiesero che fosse ripetuta quanto prima.
Non c’era nessun sentore di tensioni politiche e nulla faceva presagire quanto sarebbe avvenuto a breve. Subito dopo la nostra partenza infatti, con l’annuncio del nuovo governo di unità tra Hamas e Fatah, iniziarono dapprima i raid aerei Israeliani su Gaza ed il lancio di razzi verso Israele, poi il 12 giugno in Cisgiordania, furono rapiti ed uccisi tre adolescenti israeliani. La responsabilità ricadde su 2 militanti di Hamas ostili alla riconciliazione che vennero arrestati, ma a Gerusalemme fu rapito e arso vivo un giovane palestinese come rappresaglia.
I lanci di razzi ed i bombardamenti aerei proseguirono per settimane e l’8 luglio fu avviata l’operazione “Protective edge” che durò fino al 26 agosto. Gaza fu invasa dall’esercito ed i tunnel sotterranei, costruiti in risposta all’embargo ed utilizzati anche per introdurre armi all’interno, furono distrutti, assieme a buona parte del sistema idrico e fognario…
Alla fine il bilancio (dati ONU) sarà di: 2.250 palestinesi uccisi (1.460 civili di cui ¼ bambini), 11.000 feriti, 17.000 case rase al suolo e 37.000 inagibili, per un totale di 520.000 persone rimaste senza casa. Da parte israeliana invece 68 soldati e 5 civili morti, 469 soldati e 256 civili feriti; inoltre 5 000-8 000 cittadini furono costretti ad abbandonare temporaneamente le abitazioni a causa della minaccia di attacchi missilistici.
Durante il conflitto perse la vita anche il giornalista e video reporter italiano Simone Camilli.
La seconda missione: dopo la guerra del 2014
La 2° Missione nel 2015 è stata svolta a 10 mesi dalla fine della guerra. I contatti con il dott. Nassar erano stati frequenti, sia per il follow-up degli operati che per gli aggiornamenti sulla situazione socio-politica. Israele aveva irrigidito l’embargo e le condizioni di vita della popolazione erano peggiorate; in più si erano riaccesi i contrasti tra Hamas e Fatha.
Nei giorni precedenti la partenza, quando già erano pronti i visti di ingresso, si era diffusa la notizia di 2 bambini palestinesi morti in Cisgiordania dopo interventi ortopedici in una missione di sanitari spagnoli coordinata dal PCRF. Considerato il clima di instabilità, sorse il timore che le morti potessero scatenare reazioni incontrollabili contro gli stranieri, ma le rassicurazioni dei colleghi e del PCRF fugarono le perplessità.
Il team partì così come programmato e ad Erez fummo tranquillizzati direttamente da un’equipe ortopedica spagnola incrociata nella zona cuscinetto, in uscita dopo due settimane presso l’European Gaza Hospital, l’ospedale gestito dal PCRF.
Prima di andare in ospedale Suhail guidò il team per un rapido giro della città. Le strade in periferia erano vuote, la zona industriale rasa al suolo, e le campagne prive di coltivazione.
In città invece la vita continuava caotica tra gli odori dello “street food” arabo, sia nei quartieri risparmiati dalle bombe che in quelli semidistrutti o rasi al suolo. C’erano ancora gli scheletri cupi di cemento e ferraglia delle costruzioni ancora in piedi, e gli edifici multipiano in cui si riconosceva il “lavoro” delle bombe “intelligenti” in grado di distruggere selettivamente le case dei miliziani di Hamas lasciando “indenni” i piani sotto e sovrastanti.
Nel cortile d’ingresso dello Shifa Hospital poi, in una grossa aiuola colpiva la testimonianza della disordinata ammucchiata delle ambulanze colpite dai razzi israeliani.
Ad accoglierci con affetto ancora il dr. Sobhi ed il dr. Nassar assieme al Collegio dei Chirurghi in quanto la collaborazione con SFC aveva creato interesse ed aspettative nei colleghi di tutte le specialità. Negli ambulatori una folla enorme; qualche paziente già operato nel 2014 sorridente, i più con sguardi fissi ed impenetrabili. Nonostante le visite fossero regolamentate dallo staff del PCRF, i litigi per le precedenze erano continui; le famiglie riponevano nei sanitari stranieri tutte le speranze di guarigione per i propri cari e la loro presenza era vista come un’opportunità unica.
Le loro aspettative da un lato caricavano di responsabilità, ma dall’altro davano un significato profondo per una missione in un angolo di mondo martoriato, vicino, ed eppure tanto lontano.
Le giornate in sala operatoria trascorsero intense, sempre in compagnia del dott. Nassar con la sua umanità verso i pazienti, la sua professionalità, il suo affetto e le sue attenzioni verso di noi. Egli era apprezzato e rispettato da tutti i chirurghi dell’ospedale.
Prima della partenza fummo invitati a presentare una relazione per un incontro di aggiornamento organizzato appositamente per i medici dell’ospedale: “La laparoscopia nelle urgenze pediatriche”. Ci fu anche chiesto ufficialmente di dare continuità alle missioni per sviluppare in ospedale competenze specialistiche in laparoscopia ed urologia pediatrica.
La terza missione: un lento e costante peggioramento
Nella 3° Missione del 2016 il 1° pernottamento fu organizzato dal PCRF a Ramallah, moderna città sui monti della Giudea in Cisgiordania, sede del Parlamento dell’Autorità Palestinese.
Gaza incredibilmente, in un anno era stata completamente ricostruita e questo, raccontava Suhail, era il frutto degli aiuti dal Qatar: strade asfaltate, case e moschee rimesse a nuovo, lungomare rinnovato con tanti edifici e centri commerciali illuminati; le sofferenze della popolazione però non erano diminuite: povertà, servizi pubblici sempre più scadenti, l’embargo che col tempo diventava una vera e propria tortura collettiva, fisica e psicologica… il tutto in uno scenario di contrasti insanabili tra Fatah e Hamas, incapaci di trovare una via per la “riconciliazione“.
Da un lato l’ANP, espressione di Fatah, riduceva i contributi per l’erogazione dei servizi pubblici spettanti alla Striscia, accusando Israele dei tagli ai sussidi, dall’altro Hamas che non potendo contare sul commercio clandestino con l’Egitto dopo la distruzione dei tunnel nel 2014, non era più in grado di pagare i salari dei dipendenti pubblici a Gaza. Ed anche i medici percepivano senza regolarità, anche a distanza di mesi l’uno dall’altro, stipendi ridotti anche del 40%.
La vita dei gazawi peggiorava inesorabilmente, in una lenta agonia.
In ospedale la continuità di SFC dava credibilità al messaggio di solidarietà e negli ambulatori i pazienti erano in continuo aumento, sempre accompagnati da tutta la famiglia: padri, madri, nonni e fratelli, tutti insieme. Le visite iniziali racchiudevano i momenti più intensi e coinvolgenti dell’intera missione, quando diventava palpabile il senso dell’attività di SFC, rendere cioè disponibile il “sapere” ai deboli senza colpe, ed offrire speranza a bambini senza opportunità.
Attorno al team si era creato un clima di grande fiducia. I casi erano sempre più complessi, talora già operati più volte senza successo, e le liste operatorie stracolme.
Gli interventi, della durata spesso <10 ore, andavano avanti anche fino a notte inoltrata, ma in sala operatoria tutti seguivano con interesse le attività, attirati dagli aspetti chirurgici, ed attenti a tutto ciò che poteva migliorare gli standard operativi in ospedale: percorsi diagnostici, modelli organizzativi, training laparoscopico.
Fu impossibile purtroppo operare tutti i bambini in attesa; la responsabilità delle scelte ricadeva sul dott. Nassar che conoscendo la complessa rete sociale che regolava la vita a Gaza faceva fatica a stabilire le priorità. Noi non lo invidiavamo affatto…
Durante le missioni e dopo tante ore di lavoro condivise, avevamo imparato ad apprezzarne l’onesta intellettuale e l’umiltà ed il rapporto si era trasformato in amicizia profonda. SFC aveva preso consapevolezza dell’altissima concentrazione di malformazioni congenite correggibili nella striscia di Gaza ed era pienamente coinvolta nel progetto di supporto sia alla popolazione che ai colleghi locali.
Fu così concordata un’altra missione già nel gennaio 2017, ma prima del rientro in Italia fu organizzato ancora un incontro di aggiornamento per i medici dell’ospedale: “Trattamento dell’Idronefrosi pediatrica ed importanza dello sviluppo dell’Urologia Pediatrica all’interno di un reparto di chirurgia pediatrica generale”.
Le difficoltà e la guerra tra 2017 e 2018
Purtroppo improvvisi e ripetuti problemi di salute tra i volontari hanno impedito lo svolgimento delle missioni programmate nel 2017 e nel 2018, e SFC decise di offrire solidarietà da lontano:
1. Fu offerto un contributo per la realizzazione del registro delle nascite 2018 dello “Shifa Hospital”, registro peraltro attivo da 5 anni e già sostenuto nel 2014, considerato che la sorveglianza della salute riproduttiva rappresenta il miglior strumento per evidenziare i rischi teratogeni e carcinogeni da esposizione a sostanze tossiche nell’ambiente.
2. Fu programmato di supportare l’aggiornamento del dott. Nassar in laparoscopia pediatrica. Farlo uscire dalla Striscia però si è rivelato per ben 2 volte un ostacolo insormontabile.
Nel 2018, quando a luglio era già stata organizzata la sua accoglienza in Italia per la partecipazione al “Corso Avanzato di Chirurgia Neonatale per via Laparoscopica” a Napoli, Israele non concesse i visti d’uscita, e nel 2019 quando fu l’Italia a non concedere i visti di ingresso per la partecipazione a settembre a Vicenza al “9° Congresso Europeo della Società di “Chirurgia Endoscpica Pediatrica”, sebbene il dott. Nassar fosse riuscito a raggiungere personalmente tra mille difficoltà, i Consolati Italiani sia di Istanbul che di Alessandria d’Egitto.
In questi 2 anni, il clima sociale e politico nella Striscia continuava a peggiorare inesorabilmente.
Il Qatar aveva bloccato gli aiuti economici, ed erano riprese sia le tensioni tra Hamas ed ANP che i contrasti armati con Israele, anche se i lanci di razzi da parte palestinese e gli attacchi mirati da parte israeliana non avevano raggiunto il livello del 2014.
Mancavano sempre elettricità e carburante ed erano crollate le attività produttive e commerciali; l’assenza di acqua potabile e di fogne aumentava il rischio di malattia, la povertà aumentava ed imperava la disoccupazione giovanile. Dal punto di vista sanitario la malnutrizione dei settori più fragili della popolazione era aumentata, e le morti per mancanza di medicine, strumenti diagnostici e cure (chemio e radioterapia) si contavano a centinaia.
Tutto lasciava presagire nuove tensioni che in effetti sono poi scoppiate nel marzo 2018 dopo che il parlamento israeliano aveva approvato leggi che legalizzavano l’annessione dei territori palestinesi occupati dai coloni. L’annessione bloccava la prospettiva di uno stato palestinese indipendente nei territori occupati e creava una realtà irreversibile.
Nella Striscia di Gaza iniziarono le manifestazioni per la “grande marcia del ritorno” e le proteste continuarono ogni venerdì per settimane, determinando un considerevole innalzamento delle tensioni con gli israeliani. Alla fine del 2018 si contarono 215 palestinesi uccisi durante le proteste per l’uso eccessivo uso della forza da parte dell’esercito israeliano.
La quarta missione: un ritorno emozionante
Nel 2019 si è svolta finalmente la 4° Missione, su invito del Ministero della Salute Palestinese e del PCRF che aveva preparato una lunga lista di pazienti. La sede è sempre lo Shifa Hospital.
Dopo il pernottamento a Gerusalemme siamo entrati a Gaza di venerdì, giorno festivo dedicato nell’ultimo anno, alle proteste contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi.
Il clima appariva tranquillo, poco traffico, poca gente in strada, negozi chiusi ed i soliti rifiuti dispersi dal vento e ricoperti di sabbia; lo scenario trasmetteva una sensazione di abbandono, anche se poi in realtà, parlando con le persone si percepiva determinazione:
– nell’assorbire gli scontri armati e le violenze fisiche e psicologiche che avrebbero dovuto abbattere la volontà di resistere,
– nel rivendicare il diritto alla proprietà della terra ed all’autodeterminazione, e
– nell’accettare di continuare a protestare senza armi e senza paura di fronte ai cecchini di uno degli eserciti più potenti al mondo.
Il ritorno a Gaza dopo 2 anni è stato emozionante. L’accoglienza calorosa di Suhail, gli abbracci fraterni del dott. Nassar e degli altri colleghi e le aspettative delle famiglie dei pazienti fiduciose di riuscire finalmente a risolvere i propri problemi era una conferma della credibilità guadagnata durante le missioni. Il team fu anche convocato presso il Ministero della Sanità, insieme ai referenti del PCRF, ai dirigenti dello Shifa Hospital e ad una delegazione di medici americani, per discutere dello sviluppo delle cure chirurgiche pediatriche nella striscia di Gaza.
Nell’occasione fu anche chiesto il raddoppio delle missioni (da annuali a semestrali) e la collaborazione per lo sviluppo dell’Urologia Pediatrica non solo con missioni chirurgiche ma anche con incontri di aggiornamento da organizzare in loco con l’aiuto del PCRF.
Di SFC era stato apprezzato, al di là della professionalità, l’impegno di solidarietà verso un popolo che si sentiva “dimenticato”, la capacità di adattamento e la volontà di coinvolgimento continuo del personale locale.
Il ritorno in Italia, dopo lunghe e faticose giornate di visite e di interventi chirurgici, fu pieno di tristezza per le condizioni di vita della popolazione, martoriata dagli scontri con Israele e penalizzata sia nella loro quotidianità (per la scarsità di acqua potabile, di energia elettrica, di beni essenziali e per la precarietà di infrastrutture e servizi) che nei desideri e nei sogni per il futuro proprio e dei propri figli…, ma anche di speranza per le attività di SFC che, piuttosto di tamponare i “danni” causati dalle guerre, potessero essere inserite finalmente in una programmazione sanitaria di più ampio respiro, in linea con quello che avviene nelle comunità dove si vive in pace.
La pandemia, la guerra e la sospensione delle missioni
Nel 2020 però le missioni verranno ancora sospese e questa volta a causa della pandemia da Covid-19. Nella Striscia di Gaza il rischio di malattia temuto sin dall’inizio, è diventato una drammatica realtà nella seconda dell’anno con contagi in rapido aumento e positività dei tamponi oltre il 20%. Le preoccupazioni erano legate all’esiguo numero di respiratori (100 per 2 milioni di abitanti), ed alle difficoltà nell’approvvigionamento di apparecchiature, farmaci e vaccini, dal momento che tutte le importazioni erano decise e controllate dal governo controllo israeliano…, la cui priorità era quella di portare a termine, primo al mondo, la campagna di vaccinazione di massa, in un momento in cui i vaccini erano irreperibili sul mercato e le industrie farmaceutiche non garantivano una capacità produttiva adeguata alle richieste.
Nel 2021 al rischio Covid si è aggiunta l’ennesima guerra, la peggiore dal 2014. È iniziata con gli scontri tra palestinesi ed ebrei sul territorio israeliano immediatamente seguiti dalle reazioni violente dell’esercito.
Le cause sono state:
– il divieto di accesso per decine di migliaia di musulmani durante il Ramadan, alla grande moschea di Al Aqsa a Gerusalemme (città che sia israeliani che palestinesi considerano la loro capitale) e
– lo sfratto di famiglie palestinesi da un quartiere palestinese di Gerusalemme Est a favore di coloni ebrei, su pronunciamento della Corte Suprema Israeliana.
Agli scontri, Hamas ha risposto con il lancio di razzi sulle comunità israeliane nel sud del paese e sui sobborghi di Gerusalemme e Tel Aviv, e l’esercito israeliano con i bombardamenti “intelligenti” sulla striscia di Gaza.
Oltre che la continua ed incontrollabile espansione degli insediamenti ebraici, hanno contribuito ad aumentare la disperazione dei palestinesi gli accordi tra Paesi Arabi ed Israele, accordi che sono stati una conferma “della solitudine e dell’isolamento” del popolo palestinese, nonostante le dichiarazioni di facciata dei Governi “forti” della politica internazionale.
Durante gli attacchi il 90% delle migliaia di razzi palestinesi sono stati neutralizzati dai sistemi difensivi israeliani, mentre sono stati centinaia (compresi donne e bambini), i civili uccisi dall’aviazione israeliana. Tra i vari obiettivi sono stati colpiti anche
– l’unico ospedale COVID della striscia, “l’European Gaza Hospital” dove lavora il PCRF,
– la strada d’accesso al PS dello Shifa Hospital, e
– un edificio di 13 piani ospitante la stampa internazionale.
È difficile in tali condizioni di instabilità politica e di insicurezza, anche soltanto pensare di poter programmare, missioni di solidarietà nella Striscia di Gaza…